Federico Sardella
2010
Mondotondo, Milano.
F.S.: Partirei dall'oggi, per poi andare indietro domandandoti della nascita dei pinguini. Vorrei che tu mi parlassi del modo in cui ti muovi e di qual è il tuo atteggiamento nei confronti del fare. Allestire una mostra in una galleria d'arte che in precedenza ha ospitato opere di Mario Sironi o di Piero Guccione mi sembra una novità assoluta all'interno del tuo percorso, sia artistico sia espositivo...
PAO: Questa è per me una nuova sfida, che mi permette di proseguire un percorso iniziato da tempo. Mi sono sempre trovato di fronte a luoghi sconosciuti da scoprire, a muri da abbattere (o da decorare) e a sentieri inesplorati da percorrere... Quando ho dipinto per la prima volta per la strada non ero un writer, eppure lì mi sono messo a dipingere, dedicandomi per anni a questa attività, senza mai sentirmi un graffitaro. Oggi entro in galleria, ma non lo faccio da pittore tradizionale, ci entro per quello che sono, portandomi appresso tutto ciò che ha scandito il mio procedere, mantenendo quell'approccio fresco rispetto al fare, che sento come mio e che mi porta a realizzare qualcosa che prima di tutto mi stupisca e mi emozioni. Questa grande novità del lavorare per poi esporre le mie opere in una galleria, forse, è una sfida maggiore di quanto non lo fosse l'intervento per la strada... e questo nuovo impegno mi ha molto motivato, portandomi a dare più di quanto mi aspettassi: parto da autodidatta, quello che so fare è il frutto della pratica e dell'esperienza. Mi sono sempre trovato a operare senza avere le spalle coperte e, spesso, senza, nessuna esperienza. Lavorando ho imparato a lavorare e dipingendo ho imparato a dipingere. Nel momento in cui ho un'idea e scelgo di darle una forma è come se dovessi imparare a farlo, affinando la tecnica strada facendo. Non a caso, i primi pinguini che ho dipinto sui paracarri di cemento erano mostruosi, improvvisati e appena abbozzati.
F.S.: Forse questo dipendeva anche dal fatto che dovevi dipingere con le bombolette molto velocemente, per non essere colto sul fatto... Gli ultimi pinguini che hai realizzato, a distanza di quasi dieci anni dai primi, sono tecnicamente impeccabili. Come se tu li avessi ripuliti senza raffreddarli o tradirli.
PAO: Gli ultimi pinguini risentono del passaggio dall'esterno all'interno. Quello che funziona in strada non può funzionare nella sala chirurgica con pareti bianche che alle volte è la galleria. Le pareti bianche tendono ad accentuare eventuali difetti e imprecisioni, la strada è più permissiva e nel frastuono di colori e umori che la distinguono i toni si smorzano. Un'idea buona, indipendentemente dalla raffinatezza della sua forma, viene recepita e raccoglie consensi. In strada vincono le intenzioni sul prodotto finale, almeno per quanto riguarda quello che ho fatto per migliorare lo spazio in cui mi sono trovato a intervenire...
F.S.: Proprio per questo motivo credo tu abbia sempre contestato le multe che ti sono state date per imbrattamento?
PAO: Esatto! Quello che faccio non può essere considerato imbrattamento ma, semmai, decorazione non autorizzata... Non ho mai sporcato i muri o deturpato l'arredo urbano, così come non ho mai fatto tag o graffiti. Non amo le etichette e non mi sento di appartenere ad alcuna tendenza. Certo, ho molto lavorato per la strada, ma sentendomi un outsider... Anche ora che dipingo nel mio studio, non mi sento un graffitaro che tradisce la strada e si prostra al mercato. Il mio modo di vedere le cose non prevede limitazioni e credo che le distinzioni di genere siano riduttive... non mi sento di appartenere a nessun genere e sarebbe assurdo se, di colpo, avendo sino a poco tempo fa dipinto pinguini sui paracarri mi limitassi solo a questo, levandomi la possibilità di usare la tela o altri supporti.
F.S.: Te lo ricordi il primo pinguino cui hai dato vita?
PAO: Cerco che me lo ricordo. Era un pinguino primordiale, riconoscibile come tale ma appena abbozzato. Nato da un panettone collocato in una via chiusa, abbastanza nascosta. Era notte... non avevo mai usato una bomboletta spray prima di allora, ne avevo quattro con me, comprate in un negozio che mi aveva suggerito un amico writer. Non avevo ancora alcuna padronanza del mezzo e per sottolineare i tratti distintivi del pinguino ho addirittura impiegato un pennarello indelebile nero.
F.S.: Nonostante il tutto fosse improvvisato, mi hai detto che la cosa era più che meditata, generata da un fumetto che avevi disegnato, dedicato a una tua amica che, durante un gelido capodanno a Berlino, si era talmente coperta di strati di vestiti da sembrare una sorta di pinguino, o di paracarro forse. Esiste una versione cartacea del pinguino, dunque? Esistono dei disegni preparatori? Com'è avvenuto il passaggio dalla carta alla strada?
PAO: Esiste un quaderno con dei disegni a pennarello di questo personaggio imbacuccato che lentamente si trasforma in un pinguino. Non so come il passaggio dallo schizzo al panettone sia avvenuto, non l'ho cercato, è stata un'illuminazione. Un giorno ho visto dei paracarri con delle macchie di colore, davanti a un negozio, e in quella occasione mi è venuta l'idea... ci ho pensato qualche giorno e poi ho iniziato a dedicarmi alla insistente nobilitazione di queste grigie e gelide presenze.
F.S.: Oltre a questo desiderio di decorare e colorare la città, che cosa ti ha spinto a dare vita a veri e propri eserciti di pinguini, che per alcuni anni hanno affollata e caratterizzata Milano?
PAO: All'inizio, uno degli obiettivi che mi ero posto era quello di comparire sul "Corriere della sera", nella rubrica "La foto del giorno". Cosa che poi si è verificata in qualche occasione...
F.S.: Dopo quanto tempo dalla realizzazione del primo pinguino è arrivata "La foto del giorno?" Quali sono stati i primi riscontri che hai avuto circa quello che stavi facendo?
PAO: I primi articoli comparsi su di me sono stati casuali e tutt'altro che cercati. Mi sono state chieste delle interviste per "Elle" e per "Max"... e "La foto del giorno" è arrivata dopo pochissimo tempo. Mi sono accorto da subito che chi mi vedeva dipingere sui panettoni o chi incontravo il giorno dopo mentre fotografavo ciò che avevo fatto, era piacevolmente stupito che da ciò che si trovava di fronte. Le reazioni della gente erano positive, di interesse e di apprezzamento, perché andavo a intervenire su oggetti di cemento, brutti e scomodi, di proprietà pubblica, facendo qualcosa di piacevole, di simpatico, che non può che strappare sorrisi. La città è aggressiva e ostile nei confronti dei suoi abitanti: camminiamo su marciapiedi stretti, soffocati dallo smog, sollecitati da una quantità di immagini pubblicitarie invasive... In quegli anni di pinguini a oltranza, credo di avere anche soddisfatto alcuni bisogni dei cittadini, dando un po' di colore e di vita a queste presenze, tanto che ho ricevuto messaggi di stima di ogni tipo.
F.S.: I tuoi pinguini sono stati e sono immagini che si sovrappongono o che affiancano altre immagini. Qual'è il loro rapporto con il contesto urbano, quale quello con le insegne pubblicitarie che invadono le nostre vie e il nostro orizzonte?
PAO: I graffiti e gli interventi di street art esistono là dove c'è la pubblicità. Le due realtà sono in conflitto ma non si escludono, l'una vive dell'altra e nell'altra, democraticamente...
F.S.: Vorrei cercare di cogliere il modo in cui tu guardi e vivi il tessuto cittadino. Sono portato a pensarti osservare un bagno pubblico, uno spartitraffico, un semaforo o una qualunque struttura esistente con l'occhio di che la vede già trasformata in qualcosa di altro...
PAO: Come è successo per pinguini, le idee alle volte arrivano da sole. Gli interventi più riusciti sono dettati da forme che automaticamente mi suggeriscono nuove forme, generate da una sorta di metamorfosi della situazione di partenza. Come si trattasse di dare vita a immagini associate... Una volta in piazza Arcole, a Milano, c'erano ventitre panettoni tutti in cerchio e vedendoli mi sono messo a saltare dalla gioia, avendo trovato una situazione ideale dove intervenire. Tra questi, poi, uno rotto, accasciato a terra, mi ha suggerito l'idea dell'efferato delitto ai danni di un giovane pinguino compiuto da due mostri sconosciuti.
F.S.: Se, in questo caso, il supporto ha dettato il naturale evolversi di un'idea in favore di una forma o di un'immagine, sarà ben diverso l'approccio che avrai lavorando su tela. La tela è un luogo di partenza neutro, che non porta in sé alcun elemento guida se non alcune memorie legate al passato della pittura, memorie facilmente eludibili, visto l'indiscusso candore che distingue questo tipo di superficie.
PAO: Il momento cruciale di passaggio dal supporto casuale alla tela è stato dettato dall'invito a partecipare alla rassegna "Street Art Sweet Art", organizzata al PAC, a Milano, nel 2007. In quell'occasione, mi sono domandato: "Ha senso portare pari pari quello che faccio per strada dentro un museo? O forse mi si sta chiedendo di iniziare a fare dell'altro e di affrontare una nuova sfida?". La strada è la strada: uno spazio con le sue regole stilistiche e di comportamento, governato da leggi ben precise. Quando mi hanno invitato a entrare in un museo mi sono trovato a dovere affrontare una superficie bianca, pensando che tutto quello che sino ad allora avevo realizzato non fosse valido. Per strada, quasi sempre, ho scelto di intervenire su supporti tridimensionali preesistenti, passando alla tela ho subito avvertito che il supporto era troppo lontano da me, e di conseguenza mi sono mosso. Ho cercato di superare la superficie piana sia a livello concettuale sia effettivamente... L'opera che ho presentato al PAC è titolata Il velo di Maya: il soggetto oltrepassa la superficie della tela e uscendo dal quadro accede alla realtà più vera e profonda possibile, sino a giungere utopicamente all'essenza delle cose.
F.S.: Da qualche tempo, la pittura è una realtà con la quale ti confronti quotidianamente, anche grazie all'occasione di questa mostra. Che cosa ti piace maggiormente di questa pratica? Come ti trovi a lavorare al chiuso nel tuo studio?
PAO: Per strada ho sempre fatto cose molto colorate ed estroverse. Da quando dipingo in studio mi sono reso conto che le mie opere sono diventate più introspettive. Uno dei motivi per cui mi piace molto dipingere in un luogo chiuso, raccolto e protetto, ora, è la possibilità che ho di lavorare con calma, prendendomi tutto il tempo che mi occorre. Il lavoro in strada è legato a una certa clandestina immediatezza, che mi ha portato alla riconquista di un territorio che ci dovrebbe appartenere e che invece ci soffoca. Passando in studio, senza alcun rimpianto, in qualche modo, ho rinunciato alla poesia e alla libertà assoluta e fuori della legge che caratterizza il dipingere per la strada, rimanendo però sempre fedele alla mia scelta iniziale di rappresentare un mondo governato dalla fantasia.
F.S.: Vorrei che tu mi parlassi di questo tuo mondo e dei soggetti che lo popolano...
PAO: I miei soggetti nascono liberamente. In parte attingo dalle immagini che ho assimilato durante la mia infanzia e, in parte, da quelle che si sedimentano dentro di me giorno dopo giorno. Penso che un quadro debba trasmettere qualcosa e aggiungere qualcosa... La fantasia e la creatività devono essere poste al servizio della società, per migliorare la vita, la mia e quella di chi mi circonda. Quello che la mia pittura vuole è andare oltre la semplice visione delle cose. Non dipingo mai la realtà com'è: con la fantasia o con l'ironia la interpreto e la stravolgo, cercando di andare oltre la percezione solita e razionale. I personaggi che abitano le mie opere sono vari. Certamente compaiono i pinguini... affiancati da numerosi soggetti, sempre innocenti, appartenenti al mondo vegetale o a quello animale... Si tratta di forme morbide, semplificate e tonde, che trasmettono sensazioni e sentimenti positivi. Il mondo è sufficientemente brutto, ed è mia intenzione sottolineare il meno possibile questo suo aspetto. Nei miei quadri racconto e rappresento un altro mondo, retto da regole che sono io a dettare. Basta volerlo e d'inverno i rami degli alberi possono essere carichi di gemme... e dipingere mi permette di esplorare questi territori...
F.S.: Dipingere è per te, mi pare di capire, anche un'operazione di esperienza e conoscenza?
PAO: Dipingere mi consente di esplorare un mondo meraviglioso, un mondo che forse sono io stesso a generare. Ogni tanto mi sento come se avessi la chiave di accesso a un "paese delle meraviglie" pronto ad accogliermi ogni volta che ne sento il desiderio, un paese che consente la fuga dal grigiore dilagante in favore di luoghi assolati e ricchi di colori.
F.S.: Quando hai iniziato a dipingere pinguini sui paracarri, clandestinamente e in situazioni al limite della legalità, avresti mai pensato di arrivare a esporre in galleria, con la conseguente ufficializzazione del tuo ruolo? Come ci sei arrivato? Quali sono le tappe fondamentali del tuo percorso?
PAO: Io affronto quello che mi succede. Gli obiettivi che mi pongo sono, in genere, raggiungibili in tempi relativamente brevi. Non ho mai ipotizzato che da grande avrei fatto l'artista... ho sempre pensato di essere al servizio delle situazioni e ho cercato di affrontarle al meglio. Dopo il liceo, mi sono iscritto all'università, che non ho però frequentato, favorendo un corso per tecnico del suono. Da questo sono passato a fare il servizio civile, trovandomi a lavorare con la compagnia di Dario Fo e Franca Rame. Con loro ho avviato un rapporto che mi ha portato ad aiutarli in qualche spettacolo... Mi hanno invitato a fare il macchinista senza che io avessi mai fatto nulla del genere, insegnandomi un mestiere. Poi, di conseguenza, ho seguito un corso per costruttori di allestimenti teatrali al Teatro alla Scala. Da costruttore di scenografie, intanto iniziavo già a dipingere per strada, sono arrivate le prime commissioni per decorazioni e allestimenti. Una scelta di vita, una situazione o un nuovo lavoro mi hanno naturalmente portato ad altro, senza che io questo altro necessariamente lo cercassi. Vengo dalla strada e il mio approccio è quello dell'operaio che è disposto a fare tutto, inventandosi tutto pur di portare a termine la missione. Bruno Munari diceva che l'artista deve sapere anche progettare l'insegna per il macellaio. Condivido molto questo suo modo di pensare. L'artista deve sapere fare tutto e deve fare dell'arte un mestiere. Munari è un artista geniale, e ammiro il suo approccio che lo ha portato a concepire il design come opera d'arte alla portata di tutti, utile a tutti... Proprio per questo ho scelto di occuparmi anche di produzioni seriali, per mettere l'arte al servizio della gente, per raggiungere moltissimi individui e per rompere il più possibile le barriere.
F.S.: Il pinguino è diventato, per te, una vera e proprio cifra, un marchio riconoscibile e riproducibile, un soggetto che, assieme a pochi altri, hai saputo trasformare in oggetti d'uso, facendogli prendere posto su tazze e magliette, realizzando chiavi usb a sua immagine, proponendo la sua effige su un casco o su un lampadario... Mi sembra molto interessante questo aspetto del tuo lavoro e molto contemporaneo questo tuo atteggiamento.
PAO: Sarebbe bellissimo se, oltre a questi oggetti che produco, qualche amministrazione pubblica particolarmente spregiudicata desse avvio a una produzione seriale di bagni pubblici a mo' di lattina di PAO cola o di idranti, come quello che si trova nel giardino dietro il PAC, uno di pochi interventi che ho fatto e che non è stato cancellato o rimosso.
F.S.: Il tuo intervento su idrante, visibile dall'interno del PAC attraverso un'ampia vetrata, si si inserisce in un contesto eccezionale, vicino ai Sette Savi di Fausto Melotti... e osservando la scena non ci si può che domandare quale sia l'opera d'arte e quale l'intruso, ammesso che un intruso vi sia...
PAO: Ognuno di noi osservando un'opera d'arte è portato a recepirla in modo diverso. Quella che da un individuo viene letta come arte per un altro potrebbe essere spazzatura... È di pochi giorni fa la notizia dello sputo rinvenuto su una tela con tagli di Lucio Fontana esposta nella Galleria Nazionale d'Arte Moderna, a Roma. L'opera era sottovetro, di conseguenza nulla di grave, ma mi pare evidente che, per chi ha compiuto questo sfregio, Fontana era un intruso nel museo che stava visitando.
F.S.: Adesso che nomini Fontana e che penso al suo lavoro, al suo riuscito tentativo di oltrepassare la superficie della tela, ripenso anche a quello a cui prima accennavi circa il tuo desiderio di andare oltre la superficie, anche applicando elementi sporgenti sulla tela e utilizzando supporti concavi e convessi. Il passaggio dimensionale, dopo tutto, non è la cosa che anche tu cerchi?
PAO: In teatro, quando gli attori si rivolgono in modo diretto al pubblico, ignorando la barriera che separa le due condizioni e abbattendo il muro immaginario posto di fronte al palco attraverso il quale gli spettatori osservano la scena, si dà vita a un fenomeno noto come "rottura della quarta parete". Il passaggio dimensionale che cerco è quello che consente alle mie opere di gettarsi verso chi le osserva, permettendo simultaneamente a che ne fruisce di sprofondare in loro, sino a rompere la quarta parete...