Chiara Canali
2015
Terzo Paesaggio
La Street Art è una forma di espressione artistica a cavallo tra arte ufficiale e subculture o contro-culture urbane. Ci sono artisti che insistono a praticare l’arte di strada rivendicando fieramente l’anonimato e altri che invece compiono invece un ingresso nel sistema ufficiale dell’arte. Altri ancora continuano a cavalcare i confini tra i due mondi, dimostrando come questo linguaggio sia una vera e propria arte di frontiera, come l’aveva già definita Francesca Alinovi: “L’attuale arte d’avanguardia, più che sotterranea, è arte di frontiera; sia perché sorge, letteralmente, lungo le zone situate ai margini geografici …, sia perché, anche metaforicamente, si pone entro uno spazio intermedio tra cultura e natura, massa ed élite, bianco e nero (alludo al colore della pelle), aggressività e ironia, immondizie e raffinatezze squisite”.
Il rapporto tra Writing e mondo ufficiale mette in campo questioni sociali e storico-culturali più ampie, al di là del pure valore estetico dei lavori.
Negli ultimi tempi le amministrazioni locali o le istituzioni artistiche hanno individuato il Writing e la Street Art come un vero e proprio strumento per riqualificare aree degradate della città o abbellire muri grigi e deturpati. Così è stato a Parma, che per il secondo anno ha preso vita il progetto Parma Street View, festival di Street Art Festival di Street Art e Urban Art volto alla riqualificazione estetica di spazi e muri della città con il linguaggio dell’arte di strada.
Quest’anno la scelta è ricaduta sullo street artist Pao che è intervenuto sul muro perimetrale della Pensilina Toschi, nel cuore nevralgico della città di Parma, luogo nodale per i passeggeri e i turisti diretti in centro storico e punto di ritrovo per i giovani delle scuole d’arte.
Il murales di Pao, intitolato Terzo Paesaggio in omaggio agli scritti di Gilles Clément, riflette sulle modalità con cui il paesaggio naturale possa innestare un vero e proprio ecosistema all’interno della città, suggerendo i valori del rispetto e della convivenza.
Il disegno riprende presenze faunistiche e floristiche proprie del contesto paesaggistico della provincia di Parma. Su uno sfondo verde senza soluzione di continuità, l’artista si soffermerà su specie animali e vegetali tipiche della campagna parmense, inserendo alberi, uccelli, fiori, insetti che brulicano nel tratto urbano del torrente La Parma.
All’interno di questo ecosistema naturale compaiono anche elementi artificiali, come residui di lattine o di bottiglie di plastica, mozziconi di sigarette e altri resti sintetici, tra cui un anello di plastica delle confezioni di lattine al collo di un pettirosso, a dimostrare come la civiltà odierna ha violato tutte le leggi, tutti gli equilibri, tutti i ritmi della natura, trasformando il pianeta in un’immensa discarica.
Con il suo Terzo Paesaggio Pao rappresenta un moderno Eden in cui la natura progressivamente si riappropria del suo spazio vitale via via sottrattole dalla civilizzazione, soprattutto di quegli spazi urbani e cittadini abbandonati o trascurati dall’uomo, e ritorni ad essere protagonista del paesaggio antropico.
Chiara Canali
2015
Dolcetto o scherzetto?
Nella tradizione anglosassone Halloween è la festa che si celebra ogni anno la sera del 31 ottobre, vigilia di Ognissanti, per esorcizzare le ancestrali paure del culto dei morti.
In questa festa i bambini, mascherandosi da mostri, vanno di porta in porta chiedendo dolciumi con la famosa filastrocca “Trick-or-Treat”, italianizzato in “Dolcetto o Scherzetto”.
Nel tempo questa tradizione, con tutto il corollario di zucche e candele, è diventata un rituale Pop che si è esteso a tutte le latitudini, Italia compresa, perdendo le sue originarie caratteristiche macabre per assumere tratti carnevaleschi.
Non poteva esserci titolo migliore per questa mostra personale – inaugurata proprio il 31 ottobre – di Pao, street artist la cui cifra stilistica consiste nella rivisitazione del grigio e opprimente ambiente cittadino in un’allegra chiave Pop.
Dolcetto o scherzetto, si diceva, e in questa mostra Pao li rappresenta entrambi, a partire da Dolcetto, nome del tenero epigone dei pinguini panettoni-dissuasori di sosta che hanno reso celebre l’artista nei suoi primi anni. Accanto a Dolcetto troviamo i suoi fratellini El Ghisa e Browny, ultimi esempi di una linea autoriale assai distintiva e ancora fervida, sempre improntata all’ironia e al rovesciamento.
Ma Pao in questa mostra realizza anche dei trompe l’oeil tridimensionali a parete, come nel caso dei Donuts o delle Strutture, giocando arditamente con forme che appaiono concave pur essendo in realtà convesse, oppure presenta immagini piane a pavimento proiettate in 3D, come nel caso della scacchiera bianca e nera di Black Hole, prototipo di tappeto in cui sembra essere risucchiati in un imbuto diretto in un’altra dimensione spaziale.
Nelle calotte sferiche Pao sfrutta l'illusione ottica di un gioco di linee parallele e ortogonali, che diventano curve e convergenti, determinando un rovesciamento percettivo tra l'interno e
l'esterno della figura.
Con questa sua ricerca l’artista integra nella sua tradizionale visione, giocosa e immediata, che potremmo definire “dolcetto”, una riflessione più matura e disincantata sul fenomeno della distorsione percettiva rispetto al punto di osservazione dello spettatore e, dunque, sulla percezione illusoria e fallace della realtà, vero e proprio “scherzetto” per lo spettatore.
Lo stesso Gombrich affermava che le parti di una scena dipinta appaiono muoversi e deformarsi nelle relazioni spaziali man mano che l’osservatore si muove rispetto al quadro. Questi cambiamenti non vengono notati in condizioni normali a causa di un problema di attenzione. Pao alza l’asticella dell’attenzione a un grado più alto, proponendo lo sviluppo della proiezione di un oggetto regolare come il cubo nelle opere Punto interrogativo e Regalo. Quelle che, osservate da un certo punto di vista, sembrano delle rappresentazioni di cubi sono in realtà dei triedri a tre facce, che cambiano continuamente il significato e l’orientamento della visione secondo la posizione che assume lo spettatore nello spazio.
Pao compie così nel mondo fisico continue distorsioni ottiche che, pur strizzando l’occhio alle composizioni paradossali di M. C. Escher e riecheggiando le attuali immagini virtuali delle grafiche al computer, non rinunciano mai all’allegra e spensierata matrice propria dell’artista.
In questo modo Pao sembra avverare, in modo tangibile e in tempo reale, la “Teoria dell’Arte” di Friedrich Schelling, utilizzando forme finite che, tuttavia, contengono infiniti significati per ogni diverso individuo che le guarda.
Lontane da un mero divertissment, le opere cambiano, si svelano e si rivelano in base al punto di vista dello spettatore e basta un passo in un verso o nell’altro per cambiare completamente il senso della rappresentazione di ciò che si vede, in quello che si configura come uno straniante e ipnotico balletto visivo.
Anche questa volta Pao si dimostra artista aperto a vari livelli di lettura e le sue opere sconfinano da un’interpretazione più semplice e immediata a riferimenti intellettuali più alti e colti.
La mostra “Trick-or-Treat” prende il meglio della recente evoluzione dell’artista e ci invita a seguirlo passo dopo passo in uno scambio continuo tra “realtà” e “finzione” nella progressiva presa di coscienza che nulla è come sembra a prima vista e, come già affermava Marc Augé, la finzione è più potente della realtà stessa e a volte la modella.
Jacopo Perfetti
2015
Black Hole Fun
Una mostra che svela il lato oscuro del divertimento, tra prospettive vertiginose, ciambelle dopate e buchi neri.
In WarGames, film culto del 1983 diretto da John Badham, David J. Lightman è un adolescente americano, figlio dell’America post shock petrolifero, che alla scuola preferisce i video games e che cerca di far colpo sulle ragazze grazie alle sue abilità da proto-hacker. Un giorno, mentre cerca di introdursi nel computer della casa di videogiochi Protovision, si connette a un supercomputer, chiamato WOPR (War Operation Plan Response), progettato per valutare azioni e contromosse in caso di un eventuale attacco missilistico russo all’America. Pensando si tratti soltanto di un gioco, David, inizia una partita a Guerra Termonucleare Globale contro WOPR il quale, non essendo in grado di distinguere la realtà “virtuale” da quella “reale”, risponde alle mosse di David segnalando un attacco nucleare imminente e preparandosi per una terza guerra mondiale. A pochi istanti dal lancio dei missili tuttavia, David riesce a salvare la situazione, ordinando al sistema di giocare a Tris contro se stesso e, come la gran parte dei film di fantascienza anni Ottanta, anche WarGames si chiude con un lieto fine lasciando spazio a una morale ben riassunta dal suo claim: L'unico modo per vincere una guerra nucleare è... non farla!
A trent’anni di distanza però, il film nasconde una grande verità che oggi ci riguarda tutti e che sta alla base del tema di questa mostra. La distanza tra quello che facciamo e le conseguenze delle nostre azioni è sempre più ampia. Come dei moderni David J. Lightman, ogni giorno ci sediamo davanti al computer senza renderci conto di cosa sta dietro al nostro divertimento. Di quale sia l’impatto delle nostre abitudini sul mondo. Pensiamo alla produzione in serie del cibo che ha ormai assunto dinamiche da prodotto di massa. Si è passati da una logica in cui l’uomo era produttore diretto del cibo che consumava e quindi aveva piena consapevolezza della sua origine, fino a un estremo in cui l’uomo è divenuto consumatore inconsapevole di dove e come il cibo che consuma viene prodotto, aumentando esponenzialmente la distanza tra oggetto consumato (cibo) e soggetto consumatore (uomo). Non ci rendiamo più conto della profondità di quello che ci circonda. Il Black Hole Fun qui interpretato da Pao, ci riguarda tutti e o ne prendiamo consapevolezza al prima oppure rischiamo di venirne inghiottiti.
Fortunatamente anche in questo l’arte può esserci di aiuto. Il compito dell’arte è infatti quello di aprirci gli occhi, di mostrarci quello che noi esseri-non-artistici non abbiamo la capacità di vedere. Spesso scioccando, a volte irritando ma senza mai perdere quella forza comunicativa che contraddistingue ogni artista. Come il genio di Schopenhauer, l’artista vede quel che nessun altro riesce a vedere e ce lo ripropone sotto forma di performance, tele, sculture o, come nel caso di Pao, di un mix pop che fonde arte, design e creatività. E la sua genialità sta proprio in questo. Nella capacità di vedere, in oggetti apparentemente ordinari, qualcosa di unico e assolutamente straordinario. Qualcosa che chiunque altro non riesce a vedere. Passando per paesaggi urbani di una città come Milano, milioni di persone vedono quotidianamente i dissuasori della sosta a forma di «panettone», e nessuno ci vede altro al di fuori di quello che l’oggetto è in sé: un dissuasore della sosta. Pao invece ci ha visto un pinguino e ha lanciato così una delle forme d’arte pubblica più interessanti in Italia. Ovviamente la sua visione non si è fermata al dissuasore della sosta. Negli anni ha visto il ritratto dell’imperatore Rodolfo II a opera del pittore Giuseppe Arcimboldo in un silos tra le campagne piemontesi. Ha trasformato semafori in palme, lampioni in margherite e poi in Chupa-Chups, pompe dell’acqua in cani, cestini in pellicani, scivoli del marciapiede in fette di limone, tombini in finestre, transenne in zebre, sedie in bocche aperte, paracarri in squali e bagni pubblici in lattine di zuppa Campbell’s.
In questa mostra, Pao ci racconta una società ingrassata ironicamente rappresentata dalla serie Donut 01, 02, 03, 04 dove grosse ciambelle dopate ingannano lo spettatore trasformando il concavo in convesso. Si diverte a riprodurre la tridimensinalità immaginaria di oggetti in due dimensioni. Gioca con la prospettiva e fa sprofondare le persone in vortici in bianco e nero. Accosta soggetti bucolici e naturali al caos colorato di tele come Pacific Trash Vortex dove un vortice di rifiuti con improbabili nomi di marche inventate sembra schizzarci addosso. Il suo Black Hole Fun è una riflessione ironica e profonda sui nostri tempi che ci fa andare oltre la luce iridescente del nostro monitor per svelarci quello che ci sta dietro.
Giuseppe Culicchia
2013
Neoplasia, Torino
Pao l'ho conosciuto tanti anni fa, era venuto una notte a Torino e aveva riempito di pinguini largo IV Marzo, ricordo che vedendolo all'opera ridevo come un bambino, e la mattina dopo, tornato sul luogo della mutazione genetica dei dissuasori anti-parcheggio, avevo pensato: ma guarda che regalo, elementi di arredo urbano che prima imbruttivano questo pezzo di città e che adesso invece lo rendono più bello. Non so di preciso quanto siano rimasti i pinguini in largo IV Marzo, so però che a un certo punto sono spariti, prima uno, poi un altro, poi tutti. Rimossi dal Comune? O da qualche collezionista? O da qualcuno che semplicemente voleva portarsi un pinguino a casa? Non lo so. Sta di fatto che adesso, ogni volta che passo da quelle parti, ripenso alla notte in cui li vidi nascere, e provo una grande nostalgia. Insomma: alle opere di Pao ci si affeziona, almeno questo è l'effetto che hanno su di me. E non credo che sia così scontato affezionarsi, quando si tratta d'arte contemporanea. Ma non c'è solo questo aspetto. Da parte mia non sono un critico d'arte e però sono sempre stato affascinato dalle città, dalla loro vitalità e dalla loro capacità di cambiare ogni giorno, e Pao è parte di quel cambiamento: una sorta di graffitista-urbanista, capace di modificare spazi pubblici e di cambiare il nostro modo di guardarli. Una volta, riguardo ai suoi pinguini, mi ha raccontato: "I primi li ho fatti a Milano dalle parti di Piazza Sempione, dove c'è l'Arco della Pace. La mattina dopo sono andato a fotografarli, e mi sono imbattuto in una giovane mamma col suo bambino, che quando li ha visti è corso ad abbracciarli: quella per me è stata la critica migliore che potessi ottenere. Anni fa ho deciso di colorare un muretto grigio in uno slargo nei pressi di un asilo, dove spesso vedevo giocare dei bambini. Ho fatto un primo pezzo, poi ho chiesto ai commercianti della zona se erano d'accordo sul fatto che andassi avanti. Beh, alla fine hanno perfino voluto raccogliere loro i soldi per comprarmi i colori di cui avevo bisogno, talmente erano contenti della trasformazione di quel muretto".
Eccola qua, l'urbanistica "dal basso" di Pao, capace di sfruttare forme già esistenti con le sue visioni e i suoi colori, rendendo meno anonimo e spersonalizzante il paesaggio urbano. Se Pao non ci fosse, le nostre città sarebbero più tristi.
Grazie Pao!
Stefano Bianchi
2013
Neoplasia, Torino.
Stefano Bianchi ME LO RICORDO BENE quando a un certo punto "l'arte paoista" ha "svoltato". Immagino dopo aver detto ai suoi affezionati pinguini "Tranquilli, non preoccupatevi, che tanto torno subito", nel 2007 Pao prende parte alla collettiva Street Art Sweet Art in cartellone al PAC di Milano. Esponendo Il velo di Maya che lo ritrae sul punto di bypassare la superficie della tela, mette sinceramente a nudo introspezioni che non sussisterebbero se collocate all'esterno. Dove, al contrario, a dare spettacolo c'è una moltitudine Pop di pinguini estroversi, colorati, impattanti. In seguito, partendo proprio da quel velo, Pao non solo delinea forme curve e morbide ma si mette alla prova sperimentando inusuali prospettive, ispirato com'è dagli studi geometrici dell'incisore e grafico olandese M. C. Escher.
Al proverbiale Pao, quello gioioso e giocoso dei "panettoni" che colorano il grigiore metropolitano, si contrappone e mixa il Pao "dark" come un film di Tim Burton, che ritrae su una superficie concava a sfondo Optical una bimba dagli occhi sbarrati che nel giorno del compleanno ha appena accoltellato il suo orsacchiotto. Bene. Osservando le sue Neoplasie, non posso che ripensare a quella piccola assassina di sogni infantili. Una Freak. Come sono convinto siano Freaks, ironico/riflessive, le ultime creature da galleria d'arte e da strada che (sur)realisticamente Pao ha concepito nel nome di questa società canaglia che tutto ibrida, muta e corrompe al solo scopo di mandare in tilt l'ecosistema del nostro sciagurato MondoTondo (altra mostra illuminante, nel curriculum di Mr. Paolo Bordino).
E i pinguini? Ci sono, iconici più che mai, anche stavolta. Scrutando il cielo, però, scoprono fra le nuvole strane anomalie meteorologiche. Protuberanze sferiche in assetto da squadriglia aerea. E allora? Meglio nascondersi sotto le fresche frasche in attesa che giunga l'Apocalisse; o camuffarsi da James Bond, per tentare di sconfiggere il destino cinico e baro. E sempre dentro e fuori, tra colpi d'occhio "magrittiani", mutanti genetici (l'Armadillo da Golf, la sedia Red Mouth sbadigliante e linguacciuta, il Gufo Goffo Rosso...), un "ready-made" come la Zebra stradale (nello stile di Marcel Duchamp, ma in vena di scherzi), fiori fumettosi e pixelati, giganteschi Chupa Chups, progetti e brevetti di alieni, coccinelle neoplastiche, insetti-bomba, mine-virus, tartarughe da calcio, arance e limoni geneticamente modificati per la goduria di baskettari e tennisti, quest'Arte Paoista (lo scrivo a lettere maiuscole e senza virgolette, stavolta) non la smetterà mai d'evolversi. Per dare a Pao quel che è di Pao: l'unicità.
ivan
2010
Mondotondo, Milano.
poesia per paolo che spancia le onde
la poesia talvolta colma le giravolte
lascia come un soffio
lieve
il passo due strade più avanti
pare come curare quella febbre di restare
accarezzati per ore una città
la brina che s'alza
la notte che va
e creder davvero un tempo
che sei oggi accanto
quel sognare
tanto portento da fare spavento
la pancia rotonda spesso racconta
che l'incanto del restar solo un passo oltre
è ricordarsi già ora ancora mocciosi
che si spreme colore
come passeggiare primavera
le more
e presto l'aurora
non ho mai visto tanto tepore
nel disegnar parole
se la pazzia mi ricorda che colori
una balena sdraiata al sole
un maremoto che spancia le onde
l'arte che s'accompagna la sorgente e le sponde
ti coglie la mano
e d'incanto si faranno giganti i bambini
s'ora non so più trattenere
la poesia ritratto
paolo e i pinguini
Federico Sardella
2010
Mondotondo, Milano.
F.S.: Partirei dall'oggi, per poi andare indietro domandandoti della nascita dei pinguini. Vorrei che tu mi parlassi del modo in cui ti muovi e di qual è il tuo atteggiamento nei confronti del fare. Allestire una mostra in una galleria d'arte che in precedenza ha ospitato opere di Mario Sironi o di Piero Guccione mi sembra una novità assoluta all'interno del tuo percorso, sia artistico sia espositivo...
PAO: Questa è per me una nuova sfida, che mi permette di proseguire un percorso iniziato da tempo. Mi sono sempre trovato di fronte a luoghi sconosciuti da scoprire, a muri da abbattere (o da decorare) e a sentieri inesplorati da percorrere... Quando ho dipinto per la prima volta per la strada non ero un writer, eppure lì mi sono messo a dipingere, dedicandomi per anni a questa attività, senza mai sentirmi un graffitaro. Oggi entro in galleria, ma non lo faccio da pittore tradizionale, ci entro per quello che sono, portandomi appresso tutto ciò che ha scandito il mio procedere, mantenendo quell'approccio fresco rispetto al fare, che sento come mio e che mi porta a realizzare qualcosa che prima di tutto mi stupisca e mi emozioni. Questa grande novità del lavorare per poi esporre le mie opere in una galleria, forse, è una sfida maggiore di quanto non lo fosse l'intervento per la strada... e questo nuovo impegno mi ha molto motivato, portandomi a dare più di quanto mi aspettassi: parto da autodidatta, quello che so fare è il frutto della pratica e dell'esperienza. Mi sono sempre trovato a operare senza avere le spalle coperte e, spesso, senza, nessuna esperienza. Lavorando ho imparato a lavorare e dipingendo ho imparato a dipingere. Nel momento in cui ho un'idea e scelgo di darle una forma è come se dovessi imparare a farlo, affinando la tecnica strada facendo. Non a caso, i primi pinguini che ho dipinto sui paracarri di cemento erano mostruosi, improvvisati e appena abbozzati.
F.S.: Forse questo dipendeva anche dal fatto che dovevi dipingere con le bombolette molto velocemente, per non essere colto sul fatto... Gli ultimi pinguini che hai realizzato, a distanza di quasi dieci anni dai primi, sono tecnicamente impeccabili. Come se tu li avessi ripuliti senza raffreddarli o tradirli.
PAO: Gli ultimi pinguini risentono del passaggio dall'esterno all'interno. Quello che funziona in strada non può funzionare nella sala chirurgica con pareti bianche che alle volte è la galleria. Le pareti bianche tendono ad accentuare eventuali difetti e imprecisioni, la strada è più permissiva e nel frastuono di colori e umori che la distinguono i toni si smorzano. Un'idea buona, indipendentemente dalla raffinatezza della sua forma, viene recepita e raccoglie consensi. In strada vincono le intenzioni sul prodotto finale, almeno per quanto riguarda quello che ho fatto per migliorare lo spazio in cui mi sono trovato a intervenire...
F.S.: Proprio per questo motivo credo tu abbia sempre contestato le multe che ti sono state date per imbrattamento?
PAO: Esatto! Quello che faccio non può essere considerato imbrattamento ma, semmai, decorazione non autorizzata... Non ho mai sporcato i muri o deturpato l'arredo urbano, così come non ho mai fatto tag o graffiti. Non amo le etichette e non mi sento di appartenere ad alcuna tendenza. Certo, ho molto lavorato per la strada, ma sentendomi un outsider... Anche ora che dipingo nel mio studio, non mi sento un graffitaro che tradisce la strada e si prostra al mercato. Il mio modo di vedere le cose non prevede limitazioni e credo che le distinzioni di genere siano riduttive... non mi sento di appartenere a nessun genere e sarebbe assurdo se, di colpo, avendo sino a poco tempo fa dipinto pinguini sui paracarri mi limitassi solo a questo, levandomi la possibilità di usare la tela o altri supporti.
F.S.: Te lo ricordi il primo pinguino cui hai dato vita?
PAO: Cerco che me lo ricordo. Era un pinguino primordiale, riconoscibile come tale ma appena abbozzato. Nato da un panettone collocato in una via chiusa, abbastanza nascosta. Era notte... non avevo mai usato una bomboletta spray prima di allora, ne avevo quattro con me, comprate in un negozio che mi aveva suggerito un amico writer. Non avevo ancora alcuna padronanza del mezzo e per sottolineare i tratti distintivi del pinguino ho addirittura impiegato un pennarello indelebile nero.
F.S.: Nonostante il tutto fosse improvvisato, mi hai detto che la cosa era più che meditata, generata da un fumetto che avevi disegnato, dedicato a una tua amica che, durante un gelido capodanno a Berlino, si era talmente coperta di strati di vestiti da sembrare una sorta di pinguino, o di paracarro forse. Esiste una versione cartacea del pinguino, dunque? Esistono dei disegni preparatori? Com'è avvenuto il passaggio dalla carta alla strada?
PAO: Esiste un quaderno con dei disegni a pennarello di questo personaggio imbacuccato che lentamente si trasforma in un pinguino. Non so come il passaggio dallo schizzo al panettone sia avvenuto, non l'ho cercato, è stata un'illuminazione. Un giorno ho visto dei paracarri con delle macchie di colore, davanti a un negozio, e in quella occasione mi è venuta l'idea... ci ho pensato qualche giorno e poi ho iniziato a dedicarmi alla insistente nobilitazione di queste grigie e gelide presenze.
F.S.: Oltre a questo desiderio di decorare e colorare la città, che cosa ti ha spinto a dare vita a veri e propri eserciti di pinguini, che per alcuni anni hanno affollata e caratterizzata Milano?
PAO: All'inizio, uno degli obiettivi che mi ero posto era quello di comparire sul "Corriere della sera", nella rubrica "La foto del giorno". Cosa che poi si è verificata in qualche occasione...
F.S.: Dopo quanto tempo dalla realizzazione del primo pinguino è arrivata "La foto del giorno?" Quali sono stati i primi riscontri che hai avuto circa quello che stavi facendo?
PAO: I primi articoli comparsi su di me sono stati casuali e tutt'altro che cercati. Mi sono state chieste delle interviste per "Elle" e per "Max"... e "La foto del giorno" è arrivata dopo pochissimo tempo. Mi sono accorto da subito che chi mi vedeva dipingere sui panettoni o chi incontravo il giorno dopo mentre fotografavo ciò che avevo fatto, era piacevolmente stupito che da ciò che si trovava di fronte. Le reazioni della gente erano positive, di interesse e di apprezzamento, perché andavo a intervenire su oggetti di cemento, brutti e scomodi, di proprietà pubblica, facendo qualcosa di piacevole, di simpatico, che non può che strappare sorrisi. La città è aggressiva e ostile nei confronti dei suoi abitanti: camminiamo su marciapiedi stretti, soffocati dallo smog, sollecitati da una quantità di immagini pubblicitarie invasive... In quegli anni di pinguini a oltranza, credo di avere anche soddisfatto alcuni bisogni dei cittadini, dando un po' di colore e di vita a queste presenze, tanto che ho ricevuto messaggi di stima di ogni tipo.
F.S.: I tuoi pinguini sono stati e sono immagini che si sovrappongono o che affiancano altre immagini. Qual'è il loro rapporto con il contesto urbano, quale quello con le insegne pubblicitarie che invadono le nostre vie e il nostro orizzonte?
PAO: I graffiti e gli interventi di street art esistono là dove c'è la pubblicità. Le due realtà sono in conflitto ma non si escludono, l'una vive dell'altra e nell'altra, democraticamente...
F.S.: Vorrei cercare di cogliere il modo in cui tu guardi e vivi il tessuto cittadino. Sono portato a pensarti osservare un bagno pubblico, uno spartitraffico, un semaforo o una qualunque struttura esistente con l'occhio di che la vede già trasformata in qualcosa di altro...
PAO: Come è successo per pinguini, le idee alle volte arrivano da sole. Gli interventi più riusciti sono dettati da forme che automaticamente mi suggeriscono nuove forme, generate da una sorta di metamorfosi della situazione di partenza. Come si trattasse di dare vita a immagini associate... Una volta in piazza Arcole, a Milano, c'erano ventitre panettoni tutti in cerchio e vedendoli mi sono messo a saltare dalla gioia, avendo trovato una situazione ideale dove intervenire. Tra questi, poi, uno rotto, accasciato a terra, mi ha suggerito l'idea dell'efferato delitto ai danni di un giovane pinguino compiuto da due mostri sconosciuti.
F.S.: Se, in questo caso, il supporto ha dettato il naturale evolversi di un'idea in favore di una forma o di un'immagine, sarà ben diverso l'approccio che avrai lavorando su tela. La tela è un luogo di partenza neutro, che non porta in sé alcun elemento guida se non alcune memorie legate al passato della pittura, memorie facilmente eludibili, visto l'indiscusso candore che distingue questo tipo di superficie.
PAO: Il momento cruciale di passaggio dal supporto casuale alla tela è stato dettato dall'invito a partecipare alla rassegna "Street Art Sweet Art", organizzata al PAC, a Milano, nel 2007. In quell'occasione, mi sono domandato: "Ha senso portare pari pari quello che faccio per strada dentro un museo? O forse mi si sta chiedendo di iniziare a fare dell'altro e di affrontare una nuova sfida?". La strada è la strada: uno spazio con le sue regole stilistiche e di comportamento, governato da leggi ben precise. Quando mi hanno invitato a entrare in un museo mi sono trovato a dovere affrontare una superficie bianca, pensando che tutto quello che sino ad allora avevo realizzato non fosse valido. Per strada, quasi sempre, ho scelto di intervenire su supporti tridimensionali preesistenti, passando alla tela ho subito avvertito che il supporto era troppo lontano da me, e di conseguenza mi sono mosso. Ho cercato di superare la superficie piana sia a livello concettuale sia effettivamente... L'opera che ho presentato al PAC è titolata Il velo di Maya: il soggetto oltrepassa la superficie della tela e uscendo dal quadro accede alla realtà più vera e profonda possibile, sino a giungere utopicamente all'essenza delle cose.
F.S.: Da qualche tempo, la pittura è una realtà con la quale ti confronti quotidianamente, anche grazie all'occasione di questa mostra. Che cosa ti piace maggiormente di questa pratica? Come ti trovi a lavorare al chiuso nel tuo studio?
PAO: Per strada ho sempre fatto cose molto colorate ed estroverse. Da quando dipingo in studio mi sono reso conto che le mie opere sono diventate più introspettive. Uno dei motivi per cui mi piace molto dipingere in un luogo chiuso, raccolto e protetto, ora, è la possibilità che ho di lavorare con calma, prendendomi tutto il tempo che mi occorre. Il lavoro in strada è legato a una certa clandestina immediatezza, che mi ha portato alla riconquista di un territorio che ci dovrebbe appartenere e che invece ci soffoca. Passando in studio, senza alcun rimpianto, in qualche modo, ho rinunciato alla poesia e alla libertà assoluta e fuori della legge che caratterizza il dipingere per la strada, rimanendo però sempre fedele alla mia scelta iniziale di rappresentare un mondo governato dalla fantasia.
F.S.: Vorrei che tu mi parlassi di questo tuo mondo e dei soggetti che lo popolano...
PAO: I miei soggetti nascono liberamente. In parte attingo dalle immagini che ho assimilato durante la mia infanzia e, in parte, da quelle che si sedimentano dentro di me giorno dopo giorno. Penso che un quadro debba trasmettere qualcosa e aggiungere qualcosa... La fantasia e la creatività devono essere poste al servizio della società, per migliorare la vita, la mia e quella di chi mi circonda. Quello che la mia pittura vuole è andare oltre la semplice visione delle cose. Non dipingo mai la realtà com'è: con la fantasia o con l'ironia la interpreto e la stravolgo, cercando di andare oltre la percezione solita e razionale. I personaggi che abitano le mie opere sono vari. Certamente compaiono i pinguini... affiancati da numerosi soggetti, sempre innocenti, appartenenti al mondo vegetale o a quello animale... Si tratta di forme morbide, semplificate e tonde, che trasmettono sensazioni e sentimenti positivi. Il mondo è sufficientemente brutto, ed è mia intenzione sottolineare il meno possibile questo suo aspetto. Nei miei quadri racconto e rappresento un altro mondo, retto da regole che sono io a dettare. Basta volerlo e d'inverno i rami degli alberi possono essere carichi di gemme... e dipingere mi permette di esplorare questi territori...
F.S.: Dipingere è per te, mi pare di capire, anche un'operazione di esperienza e conoscenza?
PAO: Dipingere mi consente di esplorare un mondo meraviglioso, un mondo che forse sono io stesso a generare. Ogni tanto mi sento come se avessi la chiave di accesso a un "paese delle meraviglie" pronto ad accogliermi ogni volta che ne sento il desiderio, un paese che consente la fuga dal grigiore dilagante in favore di luoghi assolati e ricchi di colori.
F.S.: Quando hai iniziato a dipingere pinguini sui paracarri, clandestinamente e in situazioni al limite della legalità, avresti mai pensato di arrivare a esporre in galleria, con la conseguente ufficializzazione del tuo ruolo? Come ci sei arrivato? Quali sono le tappe fondamentali del tuo percorso?
PAO: Io affronto quello che mi succede. Gli obiettivi che mi pongo sono, in genere, raggiungibili in tempi relativamente brevi. Non ho mai ipotizzato che da grande avrei fatto l'artista... ho sempre pensato di essere al servizio delle situazioni e ho cercato di affrontarle al meglio. Dopo il liceo, mi sono iscritto all'università, che non ho però frequentato, favorendo un corso per tecnico del suono. Da questo sono passato a fare il servizio civile, trovandomi a lavorare con la compagnia di Dario Fo e Franca Rame. Con loro ho avviato un rapporto che mi ha portato ad aiutarli in qualche spettacolo... Mi hanno invitato a fare il macchinista senza che io avessi mai fatto nulla del genere, insegnandomi un mestiere. Poi, di conseguenza, ho seguito un corso per costruttori di allestimenti teatrali al Teatro alla Scala. Da costruttore di scenografie, intanto iniziavo già a dipingere per strada, sono arrivate le prime commissioni per decorazioni e allestimenti. Una scelta di vita, una situazione o un nuovo lavoro mi hanno naturalmente portato ad altro, senza che io questo altro necessariamente lo cercassi. Vengo dalla strada e il mio approccio è quello dell'operaio che è disposto a fare tutto, inventandosi tutto pur di portare a termine la missione. Bruno Munari diceva che l'artista deve sapere anche progettare l'insegna per il macellaio. Condivido molto questo suo modo di pensare. L'artista deve sapere fare tutto e deve fare dell'arte un mestiere. Munari è un artista geniale, e ammiro il suo approccio che lo ha portato a concepire il design come opera d'arte alla portata di tutti, utile a tutti... Proprio per questo ho scelto di occuparmi anche di produzioni seriali, per mettere l'arte al servizio della gente, per raggiungere moltissimi individui e per rompere il più possibile le barriere.
F.S.: Il pinguino è diventato, per te, una vera e proprio cifra, un marchio riconoscibile e riproducibile, un soggetto che, assieme a pochi altri, hai saputo trasformare in oggetti d'uso, facendogli prendere posto su tazze e magliette, realizzando chiavi usb a sua immagine, proponendo la sua effige su un casco o su un lampadario... Mi sembra molto interessante questo aspetto del tuo lavoro e molto contemporaneo questo tuo atteggiamento.
PAO: Sarebbe bellissimo se, oltre a questi oggetti che produco, qualche amministrazione pubblica particolarmente spregiudicata desse avvio a una produzione seriale di bagni pubblici a mo' di lattina di PAO cola o di idranti, come quello che si trova nel giardino dietro il PAC, uno di pochi interventi che ho fatto e che non è stato cancellato o rimosso.
F.S.: Il tuo intervento su idrante, visibile dall'interno del PAC attraverso un'ampia vetrata, si si inserisce in un contesto eccezionale, vicino ai Sette Savi di Fausto Melotti... e osservando la scena non ci si può che domandare quale sia l'opera d'arte e quale l'intruso, ammesso che un intruso vi sia...
PAO: Ognuno di noi osservando un'opera d'arte è portato a recepirla in modo diverso. Quella che da un individuo viene letta come arte per un altro potrebbe essere spazzatura... È di pochi giorni fa la notizia dello sputo rinvenuto su una tela con tagli di Lucio Fontana esposta nella Galleria Nazionale d'Arte Moderna, a Roma. L'opera era sottovetro, di conseguenza nulla di grave, ma mi pare evidente che, per chi ha compiuto questo sfregio, Fontana era un intruso nel museo che stava visitando.
F.S.: Adesso che nomini Fontana e che penso al suo lavoro, al suo riuscito tentativo di oltrepassare la superficie della tela, ripenso anche a quello a cui prima accennavi circa il tuo desiderio di andare oltre la superficie, anche applicando elementi sporgenti sulla tela e utilizzando supporti concavi e convessi. Il passaggio dimensionale, dopo tutto, non è la cosa che anche tu cerchi?
PAO: In teatro, quando gli attori si rivolgono in modo diretto al pubblico, ignorando la barriera che separa le due condizioni e abbattendo il muro immaginario posto di fronte al palco attraverso il quale gli spettatori osservano la scena, si dà vita a un fenomeno noto come "rottura della quarta parete". Il passaggio dimensionale che cerco è quello che consente alle mie opere di gettarsi verso chi le osserva, permettendo simultaneamente a che ne fruisce di sprofondare in loro, sino a rompere la quarta parete...
Alessandro Mendini
2010
Mondotondo, Milano.
Dario Fo
2010
Mondotondo
A una prima occhiata, appaiono come pupazzi fatti per gioco a incanto dei ragazzini: ci indovini subito ochette e pinguini che sgambettano per strade di pavè e sampietrini. Questa è l'impressione prima delle pitture di Pao.
Ti vien da temere che passi una macchina a tutta velocità a farne scempio, infatti, sul fondo, qualche automobile seguita da tram e camion transita. Per fortuna c'è un semaforo issato su una possente canna di palma, al posto delle banane o del cocco, che blocca il traffico; ma il vantaggio di queste papere è che san volare fuori del pericolo. Poi però ritornano sull'asfalto per giocare con un bimbo, che cammina a gattoni ridendo e piangendo, così da bagnare il bavaglino azzurro di lacrime.
Si anima tutta la scena, c'è perfino un aeroplano che l'attraversa lassù e, sotto, un bambino di pelle scura con gli occhi spalancati che ti fa cenno con un gesto di saluto; sta dentro un giardino con alberi radi, che proiettano ombre lunghe attraverso tutto il proscenio.
C'è pure una pecora con manto di lana scozzese che fa sfoggio di tutta la sua ricchezza e... mamma mia, accidenti! Cosa sta accadendo del cielo? Un disco volante lancia un fascio di luce al suolo, risucchiando un'altra pecora per farne bottino. Di certo i marziani si sono confusi e l'hanno scambiata per un bimbo umano! Una chioccia gli viene in aiuto volando come un caccia da guerra.
Nel bosco si son rintanati animali blu, cercando di mimetizzarsi con piante di quercia dalle larghe foglie. Ormai è una scorribanda: oche, anatre e pinguini spuntano da tutti i lati, sfondando le nuvole; altri seduti nel prato stanno a godersi lo spettacolo. In mezzo si nota un bambino appena uscito dal guscio.
La nebbia fa cambiare scena e dal basso si legge nello spazio un altro uccello protetto da piante leggere, che distribuiscono le foglie nell'aria, respirando. La foresta si fa sempre più fitta d'alberi che vibrano per il vento che l'attraversa. Si può indovinare il sibilo che ne esce, mentre foglie a manciate navigano spinte da quella tempesta. Un bimbo dagl'occhi socchiusi, nudo e in posizione yoga, da guru, medita tranquillo, leggendo nella sua estasi scritti concentrici a piccoli cubi, che galleggiano nell'aria della propria visione. Sotto, il mare è attraversato da pesci in branco che galleggiano muovendosi lenti dentro l'azzurro, e, sopra il piano del mare, sorge un coccodrillo che naviga assonnato fra le foglie galleggianti; appresso appaiono altre figure insolite, in una sequenza dell'assurdo ricolma di verità, così palese che ti incanta.
Questa è la pittura di Paolo Bordino detto da tutti Pao, anche dalle ochette e dai pinguini.
Jacopo Perfetti
2010
Mondotondo
Pao è un visionario della superficie, un alchimista del colore che fonde il surrealismo pop di Murakami con la schiettezza street di Keith Haring attraverso immaginifici paradossi macchiati da una costante ironia tipica del post modernismo. Le sue opere sono una vertigine pop che, tanto in strada quanto in studio, crea nuove forme d’interazione e situazionistiche interpretazioni del quotidiano. Pao nasce nel 1977, l’anno del Punk e di GuerreStellari. Mentre i Sex Pistols violentavano le vette delle classifiche inglesi con il loro primo album Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols, tutto il mondo veniva travolto dalla saga più pop di tutti i tempi e dalla sua icona più famosa, Luke Skywalker. Due mondi diametralmente opposti che, per un breve istante storico, hanno convissuto allargando e stravolgendo le concezioni storiche della cultura pop. La profondità di questo momento in cui tutto sembrava un’allucinazione iconica nata dalle luci mediatiche di una nuova era, ha caratterizzato il DNA artistico di Pao fin dalle sue prime espressioni in strada. Quello che Pao rappresenta con le sue opere è un mondo fantastico dove i soggetti dialogano con un contesto stravolto e surreale creando vertiginose deformazioni della superficie narrativa. Un’alterazione dalle cromie squillanti che lascia lo spettatore spiazzato di fronte ad astute anamorfosi e prospettive visionarie. Conosco Pao dal 2002, quando ci siamo incontrati per la prima volta durante la seconda edizione dell’happening “Illegal Art Show” e, fin da allora, quello che più mi ha colpito della sua arte è la sfida costante con la superficie e la capacità di tramutare la materia in qualcosa di ironico e animato. Attraverso questo velo espressivo, Pao ha tradotto l’emozione di anonimi oggetti urbani trasformando grigi paracarri in pinguini, dissuasori della sosta in delfini, pali della luce in margherite bianche, semafori in palme, bagni pubblici in lattine di Campbell’s. Con Pao il rapporto tra l’artista e la superficie pittorica è diventato uno stimolo per creare nuovi dialoghi con lo spettatore e per andare oltre la profondità bidimensionale della tela. Significativa in questo percorso, è stata l’opera Il velo di Maya del 2007 esposta per la prima volta al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano all’interno dell’esposizione “Street Art Sweet Art” nel marzo 2007. Per molti degli artisti invitati a partecipare, questa mostra ha segnato un momento di passaggio molto critico che ha presupposto una necessaria riflessione, tanto concettuale quanto stilistica, sul tema della propria arte prosciugata del fattore street che ne aveva rappresentato fino a quel momento la comune matrice. È stato un momento molto intenso, che ho avuto il piacere di vivere in ogni attimo come artefice della mostra e che mi ha dato la possibilità di scorgere chi, tra gli artisti invitati, avesse la sensibilità e la profondità necessaria per mantenere viva la forza della propria arte anche fuori dalla strada. Dopo tre anni, confermo la sensazione che mi suscitò l’opera Il velo di Maya la prima volta che la vidi. Pao era riuscito a trasferire anche su tela tutta la magia, l’atmosfera e la forte interazione con il fruitore creata durante il suo lungo lavoro in strada. Questo è il suo DNA, un dialogo ironico e costante con il pubblico, che affonda i soggetti delle sue opere oltre la superficie e li sprofonda in una terza dimensione. Per godere di un’opera di Pao bisogna avvicinarsi, brucarne i colori come in una tela di Van Gogh o in un lungometraggio di Miyazaki, perdersi nelle geometrie astratte e nelle loro sensuali rotondità. Buon divertimento.
Olivia Spatola
2009
Strada Facendo, Torino.
Sono personaggi che potrebbero essere usciti da un fumetto per bambini o da un videogioco quelli inventati e realizzati da Pao, simpatici animaletti dalle fattezze incomprensibilmente simili e "nullomorfe",dipinti e lasciati per strada non a ricoprire o abbellire oggetti, ma essendo loro stessi, in tutto e per tutto, oggetti d'arredamento e design urbano. E' come ritrovarsi all'improvviso sprofondati e catapultati nelle vicende cittadine di un cartone animato surreale ed impertinente: il luogo potrebbe anche chiamarsi "Paopoli" oppure "Pao Pao Town", ma poco importa se ciò che conta è invece quella propria capacità dell'artista di divertire presumibilmente divertendosi, lasciando che ci si faccia scaraventare nell'abisso dove solo se inventati ci si possa immaginare, curiosi di un mondo colorato e fantasticato, volontariamente ricondotto nella dimensione alienante e schizoide di un universo completamente altro. Non è forse sufficiente definire installazioni quelle micronarrazioni raccontate da Pao, autentiche mini – situazioni teatrali tra il grottesco e l'esilarante, operazioni del tutto ludiche, ma che esauriscono fino in fondo – in maniera dannatamente brillante ed inaspettata – le risorse estetiche e formali di un artista. Sono sketch a metà tra la sit – com ed il cartone animato quasi colto, là dove il massimo della semplicità diventa addirittura inintelligibile, vanificando qualsiasi tentativo di comprensione semplicemente perché qualcosa da capire, in realtà, non c'è. Quella precisa scelta stilistica delle forme arrotondate riporta alla mente quasi un Pac – Man contemporaneo, a volte più cattivo e cinico, altre più innocuo e quasi pacifico. Questi piccoli personaggi variamente colorati e disseminati rischiano di diventare oggetti di culto e da collezione ( non privata ma, ovviamente, pubblica) nell'istante in cui acquistano una loro specifica visibilità in una dimensione baroccheggiante ed autocitazionista, senza che disperdano nulla del proprio contenuto costante, diretto ed immediato.
Chiara Canali
2008
Sold-Out, Limbiate (Mi)
In che modo è nata in te l'idea di dipingere i paracarri stradali realizzati da Enzo Mari come forma di arredo urbano nell'icona pop del pinguino urbano?
Ho iniziato a dipingere per strada nell'anno 2000. In quel periodo stavo disegnando un fumetto il cui protagonista era assai tozzo e goffo. Un giorno, camminando per strada, ho incrociato un paracarro sporco di colore, e subito pensai che assomigliava al mio fumetto e che avrei potuto trasformare il "panettone" in una creatura viva. Un po' per gioco, decisi che bisognava provare, ed una notte realizzai i primi pinguini urbani.
Fin da subito mi accorsi che questi miei segni non passavano inosservati, ma venivano apprezzati dai passanti. Pian piano presi consapevolezza del gesto istintivo che avevo compiuto, così decisi di dare una continuità ai miei primi tentativi, realizzando un intervento su larga scala su tutto il territorio cittadino. Le reazioni dei cittadini alla mia decorazione abusiva di "panettoni" sono state completamente positive, ho raccolto innumerevoli ringraziamenti per rendere questa città meno grigia e per portare un po' di colore in una metropoli che spesso sacrifica i suoi stessi abitanti.
Dopo i pinguini, sono nate altre forme di intervento underground nella città, come per es. i dissuasori di sosta trasformati nelle pinne di delfini dipinti sulla strada a dimensioni reali. Cosa significa per te confrontarti con la macro scala della città?
Intervenire nello spazio pubblico per me vuol dire avere bene in mente che ti confronti con la collettività. Cerco sempre di suscitare reazioni positive e quindi scelgo con cura i luoghi dove intervenire. Mi piace creare divertimento, reinterpretando angoli grigi della città, ma al tempo stesso mi piace spiazzare i benpensanti, portando avanti un'arte fatta in segreto per la gente, un'arte che si suppone non debba esistere.
Assieme all'azione metropolitana stai portando avanti una serie di opere su tela che sono spesso autoritratti o ritratti di persone che conosci e che ti circondano nella vita di ogni giorno. Che significato attribuisci a questa forma di espressione rispetto al resto della tua produzione?
Per un lungo periodo ho sempre preferito trovare superfici alternative alla tela, superfici come muri e forme urbane che mi davano più stimoli creativi e mi permettevano di agire liberamente senza regole prestabilite.
In un naturale percorso di crescita ho sentito la necessità di confrontarmi con altre espressioni artistiche, più tradizionali rispetto alla mia precedente produzione.
Iniziare a dipingere su tela ha rappresentato per me una presa di coscienza, nonché un necessario maggiore impegno.
Non avendo fatto studi artistici, come autodidatta ho realizzato una serie di dipinti con i quali poter incrementare le mie capacità tecniche e il mio bagaglio culturale. La serie di opere di cui parli. rappresentano una fase di studio della realtà. I ritratti in questo caso non sono il fine, ma strumenti con i quali esprimere altri concetti.
Utilizzare persone reali come soggetti per i personaggi dei miei quadri mi permette di incrementare i piani di lettura dell'opera, nella quale elementi reali convivono con elementi fantastici.
Jacopo Perfetti
2007
Street Art Sweet Art, Milano.
La street art è indomabile, sexy e caustica. Non ha confini predefiniti, provoca con sensualità e altera le superfici con cui viene a contatto. Colpisce e si dilaga come un virus che fa della strada il proprio media e del graffio il proprio strumento di propaganda. Nata dalla caotica spontaneità improvvisata di Twombly e dal primitivismo "bruto" e informale di Dubuffet, la street art è la risposta artistica al cannibalismo consumistico e al bombardamento mediatico di fine secolo. Soffoca l'horror vacui della città in una vertigine di adesivi, stencil e manifesti che ricoprono muri, pali e palazzi, trasformando situazioni urbane in opere di arte contemporanea pubblicamente fruibili. Quello che mi ha sempre affascinato della street art è la sua anima punk. Quella nata nel ghetto alla fine degli anni Settanta. Quella di A. One, di Ronnie Cutrone e di Basquiat. Quella scolpita sui muri di New York, città-tempio della cultura post moderna, dove Futura 2000, Buggiani, Haring, Taki 183 facevano del contorno urbano la propria galleria a cielo aperto, lasciandosi guidare unicamente da una pulsione interna che come una bomba liberava fuochi e colori nell'aria. E' molto difficile trovare la stessa energia in altre espressioni artistiche. Perché l'arte, da Duchamp in poi, si è chiusa in se stessa alimentata da un circolo vizioso di gallerie e musei che ne hanno soffocato l'istinto e sbiadito i colori. Dopo sei anni di street art e dopo sedici edizioni dell' Illegal Art Show ancora sento il bisogno di godere di questa energia. Di godere dell'effimera monumentalità di un'arte No future, di un'arte nata sui muri, fruita quando ancora la vernice è fresca e cola tra le insenature di una superficie ruvida che gli dona vita. Questa è la vera potenza della street art, la sua genuinità. Perché chi dipinge su un muro lo fa solo per il bisogno di fare arte, per il bisogno di conquistare spazi che gli vengono negati, per dare il suo contributo al prossimo. Per stupirlo, per irretirlo, per donargli una parte di sé. Un'opera di street art non può essere venduta. Non segue direttive esterne da chi la produce. E' estranea a qualsiasi dinamica corrosiva e claustrofobica. Annulla qualsiasi intermediario e riporta l'Arte a parlare con il proprio pubblico. Perché la street art più che un movimento è un mezzo di espressione applicabile a qualsiasi declinazione artistica. Dalla pittura alla poesia. Dalla scultura alla fotografia. La street art scuote la dialettica artista - fruitore in un'interazione mobile e avvolgente. Sorprende e trasmuta. Crea significato. Inganna, affabula e adesca. Non è uno stile - è una necessità di comunicare. L'assalto poetico di ivan, i lemeri di Linda, le gigantografie di Abbominevole, le donne timide e sensuali di Nais e i puppets rock star di Tvboy, gli scarafaggi urbani di Pus e i pinguini metropolitani di Pao sono tutti metonimie di una grande corrente che scorre dentro la città generando fermento e caos sotto gli occhi di tutti. La vera essenza della street art è la collettività. Ogni artista è parte di un'opera collettiva che si frantuma tra le vie della polis creando significanti molteplici di un significato unico. L'iter classico di fruizione artistica viene spezzato, tagliato e riproposto come in un film di Tarantino dove le scene si mescolano e i personaggi si confondono in un post situazionismo nato dalle ceneri dello spettacolo moderno. Street art a Milano vuol dire passare dai murales di Bros e Sonda ai manifesti di Bo130 e Microbo, dalle rivisitazioni neoclassiche di Ozmo ai detournement neovintage di Dade per ritornare ancora, dopo pochi metri, alle installazioni di Bros. Nel pensare l'allestimento della mostra Street Art Sweet Art abbiamo cercato di mantenere vivo questo senso di decostruzione del percorso espositivo alternando installazioni e opere di artisti diversi in un mix di stili e forme che contemplasse tutte le divagazione di un'arte poliforme che spesso scivola in declinazioni non-artistiche. Non a caso parte della mostra è dedicata a tutti i prodotti (magliette, gadgets, toys, borse, poster...) derivanti dalla street art che, dal Pop Shop della coppia d'oro Haring/Warhol in poi, hanno caratterizzato questa espressione artistica. La street art è dunque una decostruzione ingegnosa di un contesto popolare, anonimo e indefinito che diviene oggetto di un significato nuovo, artistico e contemporaneo. Perché la street art trasforma, scolpisce e inventa situazioni nuove bucando la vertigine di un percorso artistico preconfezionato fatto di gallerie e televisioni mercato. Ed eccoci al cuore di questa mostra e alla difficile definizione di un'estetica nata dalla precarietà di un'arte site-specific che, come per altre espressioni artistiche, land art in testa, è difficilmente riproducibile in un contesto differente da quello originario. La street art è un'arte partorita per decontestualizzare un contesto che occupa e di cui diviene parte inscindibile. Definire, dentro i contorni estetici di un'istituzionalità altra, l'immaginario di un'arte nuova derivante da una comune matrice di stampo urbano, non è stata un'impresa facile. Quello che abbiamo voluto proporre in questa mostra è dunque l'esperienza immaginaria di un luogo che non c'è. Un Walhalla ideale di una street art slegata dalla street, per interrogarci su di un'estetica possibile e su uno sviluppo che, spero, non si allontanerà troppo dalle sue origini. "The truth is out there".