Black Hole fun

Jacopo Perfetti

2015

Black Hole Fun

Una mostra che svela il lato oscuro del divertimento, tra prospettive vertiginose, ciambelle dopate e buchi neri.


In WarGames, film culto del 1983 diretto da John Badham, David J. Lightman è un adolescente americano, figlio dell’America post shock petrolifero, che alla scuola preferisce i video games e che cerca di far colpo sulle ragazze grazie alle sue abilità da proto-hacker. Un giorno, mentre cerca di introdursi nel computer della casa di videogiochi Protovision, si connette a un supercomputer, chiamato WOPR (War Operation Plan Response), progettato per valutare azioni e contromosse in caso di un eventuale attacco missilistico russo all’America. Pensando si tratti soltanto di un gioco, David, inizia una partita a Guerra Termonucleare Globale contro WOPR il quale, non essendo in grado di distinguere la realtà “virtuale” da quella “reale”, risponde alle mosse di David segnalando un attacco nucleare imminente e preparandosi per una terza guerra mondiale. A pochi istanti dal lancio dei missili tuttavia, David riesce a salvare la situazione, ordinando al sistema di giocare a Tris contro se stesso e, come la gran parte dei film di fantascienza anni Ottanta, anche WarGames si chiude con un lieto fine lasciando spazio a una morale ben riassunta dal suo claim: L'unico modo per vincere una guerra nucleare è... non farla!

A trent’anni di distanza però, il film nasconde una grande verità che oggi ci riguarda tutti e che sta alla base del tema di questa mostra. La distanza tra quello che facciamo e le conseguenze delle nostre azioni è sempre più ampia. Come dei moderni David J. Lightman, ogni giorno ci sediamo davanti al computer senza renderci conto di cosa sta dietro al nostro divertimento. Di quale sia l’impatto delle nostre abitudini sul mondo. Pensiamo alla produzione in serie del cibo che ha ormai assunto dinamiche da prodotto di massa. Si è passati da una logica in cui l’uomo era produttore diretto del cibo che consumava e quindi aveva piena consapevolezza della sua origine, fino a un estremo in cui l’uomo è divenuto consumatore inconsapevole di dove e come il cibo che consuma viene prodotto, aumentando esponenzialmente la distanza tra oggetto consumato (cibo) e soggetto consumatore (uomo). Non ci rendiamo più conto della profondità di quello che ci circonda. Il Black Hole Fun qui interpretato da Pao, ci riguarda tutti e o ne prendiamo consapevolezza al prima oppure rischiamo di venirne inghiottiti.

Fortunatamente anche in questo l’arte può esserci di aiuto. Il compito dell’arte è infatti quello di aprirci gli occhi, di mostrarci quello che noi esseri-non-artistici non abbiamo la capacità di vedere. Spesso scioccando, a volte irritando ma senza mai perdere quella forza comunicativa che contraddistingue ogni artista. Come il genio di Schopenhauer, l’artista vede quel che nessun altro riesce a vedere e ce lo ripropone sotto forma di performance, tele, sculture o, come nel caso di Pao, di un mix pop che fonde arte, design e creatività. E la sua genialità sta proprio in questo. Nella capacità di vedere, in oggetti apparentemente ordinari, qualcosa di unico e assolutamente straordinario. Qualcosa che chiunque altro non riesce a vedere. Passando per paesaggi urbani di una città come Milano, milioni di persone vedono quotidianamente i dissuasori della sosta a forma di «panettone», e nessuno ci vede altro al di fuori di quello che l’oggetto è in sé: un dissuasore della sosta. Pao invece ci ha visto un pinguino e ha lanciato così una delle forme d’arte pubblica più interessanti in Italia. Ovviamente la sua visione non si è fermata al dissuasore della sosta. Negli anni ha visto il ritratto dell’imperatore Rodolfo II a opera del pittore Giuseppe Arcimboldo in un silos tra le campagne piemontesi. Ha trasformato semafori in palme, lampioni in margherite e poi in Chupa-Chups, pompe dell’acqua in cani, cestini in pellicani, scivoli del marciapiede in fette di limone, tombini in finestre, transenne in zebre, sedie in bocche aperte, paracarri in squali e bagni pubblici in lattine di zuppa Campbell’s.

In questa mostra, Pao ci racconta una società ingrassata ironicamente rappresentata dalla serie Donut 01, 02, 03, 04 dove grosse ciambelle dopate ingannano lo spettatore trasformando il concavo in convesso. Si diverte a riprodurre la tridimensinalità immaginaria di oggetti in due dimensioni. Gioca con la prospettiva e fa sprofondare le persone in vortici in bianco e nero. Accosta soggetti bucolici e naturali al caos colorato di tele come Pacific Trash Vortex dove un vortice di rifiuti con improbabili nomi di marche inventate sembra schizzarci addosso. Il suo Black Hole Fun è una riflessione ironica e profonda sui nostri tempi che ci fa andare oltre la luce iridescente del nostro monitor per svelarci quello che ci sta dietro.


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