Jacopo Perfetti
2010
Mondotondo
Pao è un visionario della superficie, un alchimista del colore che fonde il surrealismo pop di Murakami con la schiettezza street di Keith Haring attraverso immaginifici paradossi macchiati da una costante ironia tipica del post modernismo. Le sue opere sono una vertigine pop che, tanto in strada quanto in studio, crea nuove forme d’interazione e situazionistiche interpretazioni del quotidiano. Pao nasce nel 1977, l’anno del Punk e di GuerreStellari. Mentre i Sex Pistols violentavano le vette delle classifiche inglesi con il loro primo album Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols, tutto il mondo veniva travolto dalla saga più pop di tutti i tempi e dalla sua icona più famosa, Luke Skywalker. Due mondi diametralmente opposti che, per un breve istante storico, hanno convissuto allargando e stravolgendo le concezioni storiche della cultura pop. La profondità di questo momento in cui tutto sembrava un’allucinazione iconica nata dalle luci mediatiche di una nuova era, ha caratterizzato il DNA artistico di Pao fin dalle sue prime espressioni in strada. Quello che Pao rappresenta con le sue opere è un mondo fantastico dove i soggetti dialogano con un contesto stravolto e surreale creando vertiginose deformazioni della superficie narrativa. Un’alterazione dalle cromie squillanti che lascia lo spettatore spiazzato di fronte ad astute anamorfosi e prospettive visionarie. Conosco Pao dal 2002, quando ci siamo incontrati per la prima volta durante la seconda edizione dell’happening “Illegal Art Show” e, fin da allora, quello che più mi ha colpito della sua arte è la sfida costante con la superficie e la capacità di tramutare la materia in qualcosa di ironico e animato. Attraverso questo velo espressivo, Pao ha tradotto l’emozione di anonimi oggetti urbani trasformando grigi paracarri in pinguini, dissuasori della sosta in delfini, pali della luce in margherite bianche, semafori in palme, bagni pubblici in lattine di Campbell’s. Con Pao il rapporto tra l’artista e la superficie pittorica è diventato uno stimolo per creare nuovi dialoghi con lo spettatore e per andare oltre la profondità bidimensionale della tela. Significativa in questo percorso, è stata l’opera Il velo di Maya del 2007 esposta per la prima volta al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano all’interno dell’esposizione “Street Art Sweet Art” nel marzo 2007. Per molti degli artisti invitati a partecipare, questa mostra ha segnato un momento di passaggio molto critico che ha presupposto una necessaria riflessione, tanto concettuale quanto stilistica, sul tema della propria arte prosciugata del fattore street che ne aveva rappresentato fino a quel momento la comune matrice. È stato un momento molto intenso, che ho avuto il piacere di vivere in ogni attimo come artefice della mostra e che mi ha dato la possibilità di scorgere chi, tra gli artisti invitati, avesse la sensibilità e la profondità necessaria per mantenere viva la forza della propria arte anche fuori dalla strada. Dopo tre anni, confermo la sensazione che mi suscitò l’opera Il velo di Maya la prima volta che la vidi. Pao era riuscito a trasferire anche su tela tutta la magia, l’atmosfera e la forte interazione con il fruitore creata durante il suo lungo lavoro in strada. Questo è il suo DNA, un dialogo ironico e costante con il pubblico, che affonda i soggetti delle sue opere oltre la superficie e li sprofonda in una terza dimensione. Per godere di un’opera di Pao bisogna avvicinarsi, brucarne i colori come in una tela di Van Gogh o in un lungometraggio di Miyazaki, perdersi nelle geometrie astratte e nelle loro sensuali rotondità. Buon divertimento.